La letteratura sportiva è piena di avvenimenti nei quali lo spessore e l’importanza di certe imprese sportive, si valutano ed apprezzano a distanza di anni, forse decenni.
Si, perché anche quando il successo è il frutto del lavoro, del sacrificio e della programmazione, spesso, si tende a metabolizzare l’evento quasi come un fatto dovuto.
Ecco, mi auguro che ciascuno di quelli che, la sera del 23 giugno, hanno gioito e si sono congratulati per la promozione in serie A della Pallacanestro “Andrea Pasca” Nardò, invece, avessero bene in mente, sin da subito, la portata e l’importanza di un’impresa storica come questa, forse epica.
Lo sport è tante cose messe insieme: competizione, socialità, aggregazione, salute, ma anche e soprattutto, al di là dei soliti luoghi comuni e bla bla bla di circostanza, promozione della comunità, in termine di immagine, promozione del territorio ed infrastrutture adeguate.
Con la serie A, la città di Nardò irrompe prepotentemente nell’olimpo dello sport più seguito in Italia dopo il calcio.
Grazie a Carlo, un visionario con il dono dell’estrema concretezza, un uomo del fare in un mondo di quacquaracquá.
Solo chi ha vissuto su Marte, negli ultimi vent’anni, non sa che Lui non ha bisogno di cariche o investiture ufficiali. Lui le cose non le manda a dire, te le spiattella in faccia. Vulcanico ed irruento ma anche e soprattutto generoso e munifico con la propria tasca, nello sport e nella vita.
Lui, a Nardò, piaccia o non piaccia, è il basket.
Lui, che ha caparbiamente trasformato il più assurdo ed inaccettabile momento di dolore e strazio, non solo di una famiglia, quella di Angelo, Ornella e Mariavittoria , ma di un’intera comunità, per la perdita di Andrea, in un’ardita promessa.
Che ha tramutato ogni lacrima di prostrazione in gocce di sudore.
E, si sa, che se Carlo si mette in testa una cosa, è difficile che non ci riesca.
Soprattutto se, strada facendo, si incontrano compagni di viaggio capaci ed intraprendenti, ciascuno nel suo.
Ivan, Fabrizio, Valentino, Michele, Jeorge, tutti i dirigenti, i giocatori, gli sponsor e altri ancora, travolti e coinvolti dalla sua irrefrenabile passione ed ambizione. Un mix perfetto, una miscellanea vincente di personalità e competenze.
E qui, per me, si apre la finestra dei ricordi che generano sorprendenti ed emozionanti deja vú.
La sera del 23 giugno, infatti, ho rivissuto la stessa magica atmosfera di quel lontano 22 maggio 1983, esattamente 38 anni fa.
E si sono materializzate nella mia mente insospettabili analogie con quell’evento che mi hanno commosso perché hanno risvegliato in me le emozioni nascoste negli angoli più reconditi dei miei ricordi più belli.
In quegli anni, mi avvicinai al basket giocato e seguivo la Viola Reggio Calabria che, all’epoca, militava da anni in serie B e che, proprio quell’anno, battendo nei play off la Necchi Pavia, approdò in A2 per la prima volta nella storia.
In quegli stessi anni, a Nardò, ai “Campetti”, andavano in scena gli infuocatissimi derby tra AICS e Libertas, all’aperto, pioggia o sole che ci fosse, mentre qualche centinaio di chilometri più ad est, in una terra balcanica non ancora lacerata dalla guerra, proprio in quell’inizio estate del 1983, veniva alla luce, in Montenegro, una creatura che, per un misterioso disegno divino, architettato dal fato bastardo e benigno nello stesso tempo, avrebbe legato a filo doppio la sua vita e quella della sua famiglia alla città di Nardò ed al basket neretino: Goran Bjelic, colui il quale sarebbe poi diventato il capitano condottiero dei granata, nel solco del ricordo di Andrea Pasca.
Che mistica coincidenza!
Ma torniamo a quel maggio 1983.
Eravamo in 500 sognatori, ansimanti per una squadra che portava (e tuttora porta) il nome di un giovane cestista deceduto prematuramente, Piero Viola, a cui il fratello Giuseppe, illustre magistrato a completo digiuno di basket, insieme ad un gruppo di amici, dedicò l’impegno di portare più in alto possibile quella squadra. Anche lì, il dolore si trasformò in missione e memoria.
Notate anche voi quest’altra evidente affinità?
Bene, sappiate che non sono finite qui.
A quei tempi, estremamente difficili sotto l’aspetto degli equilibri sociali, il basket era sport per pochi, sovrastato dal calcio, e le partite si giocavano in una palestra comunale soprannominata “Scatolone” (che, guarda caso, fa rima con “capannone”, altra evidente corrispondenza), dove, ogni domenica, si viveva in una sorta di bolla, del tutto estranea a ciò che rimaneva fuori.
Quella vittoria fu come una scintilla che innescò un immenso incendio di passione sportiva e coinvolgimento sociale, al punto da provocare, successivamente, altri miracoli in sequenza.
In soli 45 giorni si costruì un palazzetto da 3500 posti (capienza minima imposta, all’epoca, dalla Lega) interamente prefabbricato, il primo in una città di 200 mila abitanti che fino ad allora aveva solo palestre e che sognava da decenni un impianto sportivo degno di tal nome (come non pensare al progetto del nuovo palasport in zona 167?)
Successivamente, a seguito della fame di basket alimentata dai successi, arrivò il Pala Pentimele, impianto da 9.000 posti a sedere, espugnato a gennaio dall’Andrea Pasca Nardò.
Poi avviò al basket circa 300 ragazzi che fino ad allora conoscevano solo il cuoio da calcio (quel settore giovanile su cui a Nardò si lavora in maniera eccellente da qualche lustro).
Intere famiglie, tra cui i miei genitori, complice la comodità di assistere alle partite seduti ed al coperto e ad un orario comodo, cominciarono ad appassionarsi ed a frequentare il palazzetto e, per un paio di decenni almeno, sostennero con gli abbonamenti la società.
Ora come allora, non posso fare a meno di notare che anche il Pala Andrea Pasca, da qualche anno a questa parte, è diventato ormai punto di riferimento di tante famiglie e ancor di più lo sarà il futuro nuovo palasport.
Il ritorno in termini di immagine della città, fino a quel momento non particolarmente brillante, ebbe un sussulto di freschezza e popolarità.
I risultati sportivi fecero il resto.
Salvezza al primo anno, promozione in A1 l’anno successivo e poi vittorie impensabili ed inimmaginabili, come quella contro l’Olimpia Milano di Dan Peterson, Mike D’Antoni e Dino Meneghin nei play off scudetto, e conseguentemente la partecipazione alla Coppa Korac.
In quella squadra militarono mostri sacri del basket mondiale. Dai primi americani, Hughes e C. J. Kupec a Volkov, Garrett, Ginobili, Sconochini, Delfino.
Sul parquet reggino si è avvicendato il Gotha del basket planetario, giocatori ed allenatori, impossibile ricordarli tutti.
Poi, come ogni favola, tutto ha un finale, bello o brutto che sia.
E quello della Viola Reggio Calabria, purtroppo, non è stato bello come le premesse.
Succede, allora, che i momenti di autentica esaltazione collettiva, quando non vengono adeguatamente custoditi, valorizzati e coltivati, diventano velocemente ricordi e gli eventi indimenticabili che hanno reso grande una squadra ed una città, per essere cristallizzati nella memoria dei più, finiscono per essere narrati, in chiave celebrativa e non senza gli immancabili sospiri, nelle pagine dei libri.
Un libro, un documentario televisivo, diventa un prezioso scrigno di aneddoti ed avvenimenti scanditi dai rimpianti di chi, leggendo, ricorda le imprese più importanti, quelle che rendono gli uomini immortali e che difficilmente potranno ripetersi perché, in taluni casi, non si è fatto abbastanza per custodire quell’autentico patrimonio sportivo e sociale o addirittura si è fatto qualcosa per distruggerlo (“Che anni quegli anni” di Giusva Branca e “Viola contro tutti” di Enrico Ventrice).
Ecco il punto!
Al termine di questo ideale parallismo temporale tra epoche e squadre, di questo curioso gioco di affinità ed analogie tra fatti e personaggi vincenti di allora e di oggi, di questi rigurgiti di un passato che si rimaterializza e, nella mia mente, mescola, lasciandoli intatti nella loro identità, i colori del neroarancio e del granata, vorrei che rimanesse un piccolo ma forte pensiero.
Questa vittoria ha un valore inestimabile, e Carlo, Ivan, Fabrizio, Valentino, Michele, tutti i dirigenti e giocatori, tutti i tifosi più affezionati questo lo sanno benissimo.
Sono certo che per molti di essi, Carlo in primis, questo non è un punto di arrivo, se è vero, come è vero che quell’eterno bambino dal cuore enorme, dopo pochi minuti dalla sirena finale, già parlava di salvezza immediata e poi di A1. Ed io ho paura, una fottutissima paura, che si metta idee ancora più strane per la testa. Anche perché lui, insieme ai suoi compagni di avventura, che contano sulle proprie risorse, difficilmente non raggiungono gli obiettivi fissati.
Perché questa vittoria, come esperienza insegna, dev’essere adeguatamente festeggiata, ma poi deve essere soprattutto uno schiaffo alle coscienze di chi non comprende bene la portata dell’occasione e dell’opportunità che questa città ha.
Perché questa società dovrà essere doverosamente sostenuta, concretamente accompagnata, cocciutamente difesa.
Da tutti, ciascuno nel proprio ambito, ognuno nel proprio piccolo.
Il prossimo campionato, il primo in serie A2, sarà molto dispendioso e si giocherà lontano da Nardó.
Sarà il banco di prova più difficile da superare perché ci confronteremo con piazze dal blasone storico.
Tutti dobbiamo farci trovare pronti.
Se vince l’Andrea Pasca, vincerà Nardò ed aggiungeremo altri capitoli a questo meraviglioso libro.
Vorrei chiudere con un ultimo aneddoto di 38 anni fa, che sia di buon auspicio.
Ricordo uno striscione ideato da me e realizzato con i miei amici, esposto al Pala Botteghelle durante il primo campionato di serie A, che recitava così:
“l’AbbiAmo volutA, dobbiAmo difenderlA!”
La lettera A era in bell’evidenza e voleva rappresentare una sorta di chiamata alle armi di chi aveva a cuore il destino di quella società e di quella categoria.
Ecco, vorrei che questo messaggio rappresentasse un impegno per tutti coloro i quali amano e sostengono questa società, non solo virtualmente, perché ciascuno si senta investito da una missione e partecipe di un progetto vincente e prestigioso.
Giuseppe Ienuso