QUANDO CUMBINÈMU SBARCÒ A SANTA MARIA AL BAGNO

I leudi restituiscono altre storie affascinanti e quindi nuove conferme sulla loro presenza nelle acque dello Jonio durante il secolo scorso. Il geografo di Unisalento Giuseppe Piccioli Resta, che con la sua ricerca ha “svelato” le rotte commerciali tra la Liguria e la Puglia risalenti al periodo compreso tra l’inizio del ventesimo secolo e la seconda guerra mondiale, è riuscito adesso a identificare anche quale imbarcazione effettuò in quegli anni scambi lungo le coste joniche.

La ricerca, anche grazie alle testimonianze di alcuni pescatori di Santa Maria al Bagno, ha dimostrato che i caratteristici leudi dell’area intorno a Genova (probabilmente Riva Trigoso e Sestri Levante) raggiungevano il golfo di Gallipoli per acquistare il vino locale e altra merce e per vendere prodotti e manufatti liguri come le terrecotte di Albisola. Il leudo è una barca a vela latina di circa sedici metri di lunghezza e con una capacità di carico di una trentina di tonnellate, condotta da commercianti. La forma affusolata dello scafo permetteva a questa imbarcazione, in una epoca in cui i porti erano in numero esiguo, di esser calata in mare e tirata direttamente sulla spiaggia. Tanto da essere considerata “il Tir del Novecento”. Oggi l’Unesco ha dichiarato il leudo mezzo di valore storico e culturale.

Il nuovo segmento della ricerca, frutto di una recente trasferta di Piccioli a Sestri Levante e Riva Trigoso, è nato dalla consultazione di documenti molto importanti e dalla raccolta di testimonianze dirette dei discendenti degli ultimi proprietari dei leudi, tra cui i Bregante, i Castagnola, gli Zolezzi. Fondamentali, poi, sono stati i contatti con l’associazione “Amici del Leudo”, che cura l’ultima di queste imbarcazioni ancora navigante (il “Nuovo Aiuto di Dio”), e con il Museo Marinaro “Tommasino-Andreatta” di Chiavari. Dalle notizie e dai dati ottenuti risulta che, agli inizi del secolo scorso, il leudo “Felice Manin” attraversò in lungo e in largo il Mediterraneo, pilotato da Emanuele Ghio. Come i pugliesi, anche le famiglie liguri hanno nomignoli e soprannomi. Quello di Ghio, derivato dal suo intercalare, fu “cumbinèmu”, ossia “combiniamo (l’affare), ci accordiamo?”.

“I pescatori di Santa Maria al Bagno, alcuni dei quali purtroppo non più in vita – spiega lo studioso – mi hanno raccontato per anni decine di aneddoti. Alcune narrazioni, discese dai loro genitori e nonni, risalgono ai primi del Novecento, quando i bastimenti a vela ormeggiavano nel porto di Gallipoli a caricare olio lampante e vino per il nord Italia e l’Europa. Nel periodo dal 1918 al 1927 (quest’ultima data di nascita di Mimino Capoti, l’ultimo dei grandi “vecchi del mare” di Santa Maria) arrivavano in porto “li genuvesi” con il loro barcone da carico, ormeggiavano e mettevano in vendita la mercanzia. Poi si accordavano per l’acquisto di vino in botti, circa 300 quintali, e alla fine salpavano. Uno fra tutti diventò famoso per l’intercalare usato durante le contrattazioni, al punto che per un periodo di tempo qualcuno lo riconobbe anche qui: “cumbinèmu”, proprio Emanuele Ghio! E stando ai racconti pare che Ghio sia arrivato a caricare vino anche verso Nardò e Galatone, sbarcando a Santa Caterina o a Santa Maria al Bagno. Considerando che il leudo non attraccava, ma semplicemente toccava terra con la chiglia, è verosimile immaginare che lo abbia fatto proprio a Santa Maria, dove la spiaggia è di sabbia e non di sassi. Da lì Mimino racconta che a piedi “cumbinèmu” si sia recato nell’entroterra a cercare vino da acquistare nelle masserie”.

Il mercante ligure, dunque, fu affidatario del leudo “Felice Manin” per conto delle sorelle e navigò commerciando fino al febbraio 1926, quando morì per una polmonite (cercò di salvare la sua barca incagliata su un basso fondale in Liguria). Ecco perché, dalla nascita di Mimino Capoti in poi (1927) non si fece più vedere nel Salento. Il suo ricordo, invece, ha miracolosamente attraversato quasi un secolo. La vicenda ha dell’incredibile, ma la storia che racconta la barca, se possibile, è ancora più sorprendente: venne costruita in uno dei tanti cantieri genovesi, San Michele di Pagana, nel 1891; alla morte di Ghio cambiò proprietario e nome in “Giovanni e Paolo Castagnola”, attraversò miracolosamente la guerra, nel 1957 passò ancora di mano e fu denominata “Padre Carlo”. Con il terzo cambio di armatore, Cappellini, nel 1981 fu reintrodotto il nome originario. Così, nel 1985, il “Felice Manin” ebbe anche l’ardire di affrontare l’Oceano Atlantico, al punto da presentarsi in Florida per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America, di risalire la costa orientale degli Usa, attraversando addirittura la regione dei Grandi Laghi fino a Chicago. Lì, però, fu abbandonato e languì, danneggiandosi gravemente per moltissimo tempo sulla banchina, fino all’intervento della Marina Italiana, che lo riportò in patria su una nave portacontainer. Fu deposto in banchina a Genova e purtroppo, complice l’immobilismo delle istituzioni italiane, venne dimenticato da tutti. Ancora oggi si trova in quel luogo, ormai irrecuperabile. Dunque vicende che hanno un sapore epico quelle svelate dal docente neretino, che ha il merito di essere riuscito con amore e caparbietà a restituirci uno spaccato di vita ormai lontano nelle memorie.

“Scoprire delle radici così forti, così profonde, così significative – aggiunge – segna l’anima, perché si conoscono popoli e persone, distanti mille e più chilometri, in realtà uniti grazie a un “vecchio” veliero. Questo mi rende giustizia della fatica, degli sforzi e delle notti insonni. Per carità, ben poca cosa rispetto alla fatica durissima di quelle genti ma, certamente, è una fatica che ci avvicina a loro perché ci rende consapevoli di essere diventati noi, oggi, i loro testimoni. Speriamo degni”.

Ricercatore dal 2001, componente di importanti progetti di ricerca, Giuseppe Piccioli Resta dal 2005 è Professore Associato di geografia presso l’Università del Salento, nel Dipartimento di Società, Storia e Studi sull’Uomo. Dal dicembre 2013 è il Responsabile Scientifico del Laboratorio di Fotografia Subacquea e Monitoraggio dei sistemi Costieri dell’Università. È anche un fotografo subacqueo di importanza internazionale, con oltre 130 concorsi vinti e i suoi lavori (tutti realizzati nelle nostre acque) sono esposti ovunque in Italia e all’estero. Da un paio di anni, il Laboratorio e il Comune di Nardò stanno collaborando per realizzare un grande modello navale di leudo in scala 1:15, da esporre per la fruizione come prodotto culturale.