RIZZO LATERALE
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LU MUNACEDDHU

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MANIERI

Spingere lo sguardo e tendere l’orecchio mentre mi addentro nel centro storico è un qualcosa che mi ha sempre attratta fin da bambina. Durante l’infanzia ero intimidita, a volte impaurita, da quelle stradine strette e lunghe e da quei vicoli ciechi, senza possibilità di uscita se non il ritorno. Da adulta invece eccomi alla ricerca di scorci particolari, viuzze sconosciute, chiesette sconsacrate, androni affascinanti, palazzi signorili che trasudano profumo di antichità. Stamane, mentre attraversavo il centro storico, la mia curiosità è stata calamitata da una nonnina che, seduta sull’uscio ad arco di una vecchia casa a corte, era intenta a sferruzzare e a parlare ad alta voce con quella che potrebbe essere sua nipote.

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Evidentemente la giovane era alla ricerca di qualcosa che non trovava e chiedeva insistentemente alla vecchietta se sapesse dove fosse. Alle ripetute domande, la nonnina è sbottata dicendo: – “Mamma mia intra sta casa ce nc’è lu munaceddhu ca si perde tuttu?” (Mamma mia in questa casa che c’è “lu munaceddhu” che si perde tutto?)
“Lu munaceddhu”! Questa parola ha aperto un cassettino, gelosamente custodito, nei meandri più reconditi della mia memoria. All’improvviso sono tornata bambina…una bambina curiosa ed affascinata da personaggi strani, da racconti e da storie fantastiche che i “grandi” della mia famiglia, sciorinavano con quella maestria e quella dovizia di particolari che solo gli anziani hanno ed elargiscono ai piccoli come dono. Insomma una specie di “ntartieni” (intrattenimento) per fare stare buoni i piccoli mentre la mamma era indaffarata. “Lu munaceddhu” è stato il mio personaggio preferito.
Nella cultura salentina, “lu munaceddhu” è un folletto allegro, dispettoso e giocherellone il cui nome è collegato al fatto che a volte appariva con addosso un saio monacale. E’ un esserino alto circa 50 cm., bruttarello, con occhi neri e lucidi e la testa pelosa, su cui calza un cappello rosso a punta. Il suo habitat era il bosco ma adorava aggirarsi nelle case e soprattutto nelle stalle dove, allo scoccare della mezzanotte, iniziava a scorribandare. Il suo più grande divertimento era quello di “nfiettare” (intrecciare), annodare e aggrovigliare in modo inestricabile, la coda o la criniera dei cavalli, togliere la biada alle bestie per farle morire di fame, frustarle e farle correre all’impazzata, facendo disperare il povero contadino. Altri suoi “giochi” preferiti erano:  addentrarsi nelle case espaventare i proprietari con il rumore prodotto dai “tampagni” (coperchi delle pentole), mettersi sul petto o sulla pancia delle donne dormienti per togliere loro il respiro, tirare le coperte, attorcigliare le lenzuola e renderle appiccicose con la sua saliva, mischiare e sparpagliare i legumi, portare via il denaro, nascondere gli oggetti per farli ritrovare dopo molto tempo e altre scorrerie. C’era un solo modo per tenerlo a bada ma era un’impresa assai ardua: rubargli il berretto e quindi ricattarlo per farsi consegnare i soldi che custodiva in una “pignata”(recipiente di terracotta) nascosta gelosamente sotto terra. Si, perché, se “lu munaceddhu” era privato del suo “cappiddhuzzu” (cappellino) perdeva i poteri e diventava mansueto ed obbediente. Iniziava a piangere e a fare promesse dicendo che avrebbe esaudito ogni desiderio ma appena si riappropriava del copricapo ritornava quello di prima. Bisognava perciò essere duri, non farsi intenerire e ridargli il cappello solo dopo aver avuto le indicazioni per trovare “l’acchiatura” ossia il tesoro nascosto nella “pignata”. Il folletto, a causa della sua indole dispettosa, esaudiva il desiderio al contrario. Se in cambio del cappello gli si chiedevano “sordi” (soldi) dava “cuperchi” (coperchi delle pentole)e se gli si chiedevano “cuperchi” dava “sordi”. Solo dopo aver riavuto il cappello, indicava il luogo in cui trovare “l’acchiatura”.
Un vero mattacchione, insomma!
I contadini esasperati, per i suoi dispetti, le tentavano tutte: si rivolgevano perfino ai Santi. Il Santo per eccellenza, che proteggeva dalle malefatte dello spiritello era “Santu Nastasiu” (Sant’ Anastasio). Perciò, era consuetudine, collocare nella stalla un quadro con l’effigie del Santo. Altri gesti scaramantici, per tenerlo a bada, erano: tenere le forbici aperte sotto il cuscino, oppure, tenere in casa delle lucciole scintillanti, dato che i suoi occhi non tolleravano la luce. Chi godeva della sua simpatia, pochi in verità, non acquistava mi olio e si ritrovava pronto il corredo per la figlia.
E’ da precisare che ”lu munaceddhu” era dispettoso e non malvagio: il suo bersaglio non erano le persone buone ma quelle cattive.
“Lu munaceddhu” rappresenta una pagina della storia e degli usi e costumi del territorio salentino. E’ un personaggio affascinante che ci riporta in un tempo passato, in cui affondano le radici della nostra cultura.

Mariella Adamo